Ritratto dell'artista da giovane

Nel 1954 Marco Crippa ha 18 anni. La sera frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera, dove il suo talento naturale trova presto sfogo in una pittura senza regole: istintiva, esuberante, gestuale. È affascinato dalle opere di impressionisti e espressionisti, ammira l’arte del Rinascimento e in generale gli antichi maestri. Qualcuno lo ha visto passeggiare lungo i viali dei Giardini Pubblici in compagnia di Carlo Carrà, è allievo di Aldo Carpi; viene notato e incoraggiato da Gianfranco Campestrini. Ma nonostante questi incontri si ha la sensazione di trovarsi da fronte a un talento abbandonato a se stesso. La sua forte e complessa personalità rifugge scuole, gruppi e tendenze. Marco Crippa si pone da subito sulla scena artistica come un pittore solitario, un fenomeno isolato; e, per certi versi, solitaria e orgogliosa è anche la sua formazione. Perdere di vista questo aspetto significa smarrire una importante chiave di lettura della sua opera, non solo giovanile, perché è anche questa totale estraneità ai movimenti artistici dei suoi contemporanei, questo distacco dalle realtà di moda a dare vita nelle sue opere a quelle originali esplosioni di energia che sono, al di là di ogni insegnamento, le basi della tecnica dell’artista. Una tecnica originale che nel tempo maturerà esiti sorprendenti, unita a un temperamento che non conoscerà crisi e incertezze, sempre sorretto da una immutata e meravigliosa ispirazione. Coloro che lo hanno osservato dipingere negli anni ’60 (di giorno, di notte, sotto la neve, da qualche parte in qualche città d’Italia o d’Europa, poiché ha già deciso che dipingerà sempre e solo en plein air), ricordano un pittore che spremeva tubi di colore direttamente sulla tela bianca, ricordano il gesto rapido, ampio e generoso della spatola e opere materiche dai forti contrasti cromatici; opere di fronte alle quali non è possibile parlare di impressionismo, poiché le impressioni soccombono sotto il linguaggio più urgente e vibrante delle emozioni.


Milano e le altre

Nonostante gli esordi dell’artista siano legati a molteplici viaggi (Spagna, Francia, Olanda, Svizzera), Milano, che ha accolto l’uomo alla nascita, resterà sempre indiscussa protagonista della sua opera. Indagare il suo rapporto con questa città non è cosa semplice: Marco Crippa ha spesso ripetuto “Milano è la mia modella”, ma i modi in cui ci invita a conoscerne anche le vedute meno ufficiali e turistiche ci fanno supporre che si tratti piuttosto della sua casa, anzi, del suo studio. Milano è la sua grande officina, un luogo che l’artista ricrea al di là di ogni definizione e, soprattutto, libera dai pregiudizi che la vorrebbero una città grigia e nebbiosa, segreta e squadrata. Ma come si presenta e in cosa consiste la città che l’artista ci invita a conoscere? Innanzitutto è una destinazione che riassume in sé i colori, le materie, la atmosfere da cui evocare tutti i paesaggi possibili. Non è affatto una città unica, ma piuttosto un luogo totale: dinamico, ospitale e generoso, sognato, spesso lieve e ben areato. Marco Crippa ha scoperto che Milano sa anche di mare e di temporale, ha scoperto quel luogo dove Milano smette di essere Milano per diventare una città più vasta, offerta alle sconfinate possibilità della sua tavolozza d’artista. All’interno della sua opera colori impensabili affiorano sotto la superficie di questa città erette su asfalti acquorei e specchianti; percorsa da rotaie, da cavi e tubature come da graffi e serpenti che sfiorano, scavano e sfregiano. Lamiere, mattoni, marmo, cemento e vetro, le materie si sfaldano e trasmutano nella visione dell’artista che ci riconsegna una città ubertosa, tempestosa, matura, saporita come frutta di stagione. Questa Milano ha i colori leggeri dei petali dei fiori, ha la fragranza del pane appena sfornato. A volte è una città marina con mura incrostate di conchiglie, a volte sa di bosco e di vino. È una città pervasa da un dinamismo scattante e ondoso dove la notte si accendono intermittenze coralline, fanali, insegne che sanno di crema, di acquario e di lampo. Città di taxi e limoni, di scoiattoli futuristi che cavalcano biciclette impossibili, di fontane che sanno di muschio e di lampioni di alga marina, di automobili dai riflessi di seta e di granchio che si muovono una sull’altra, una dentro l’altra; città morbida e croccante impreziosita da una bigiotteria di altri tempi e da intonaci squamati, friabili e zuccherini, e da tante guglie, slanciate, acuminate: di ghiaccio, di perla, di vetro, di piombo, neve e cristallo, di polvere e fumo. Città degli amanti e del teatro, di quell’arte che più di ogni altra esprime la realtà attraverso la finzione. 

Davanti alle opere di Marco Crippa assistiamo a continui prodigi, e soprattutto assistiamo alla rappresentazione fastosa e melanconica della fragilità dell’apparire. Sono opere dove non è possibile separare il confine tra veduta e visione, dove i palazzi di cinque piani smettono di essere palazzi e sfumano nel cielo, dove gli orizzonti si gonfiano, i cieli si stirano, si sfaldano, e le nuvole entrano nelle finestre, mentre le prospettive sussultano ubriache di rumore e di vita (si spiega così anche la fascinazione per le altre, soprattutto per Parigi e Venezia, mete ricorrenti nei viaggi di Marco Crippa, due luoghi di evidente diversità, ma entrambi imbevuti e trasfigurati dall’opera dell’arte). Certo i suoi soggetti sono le vie, le piazze del centro, i luoghi della finanza e della moda, i monumenti, ma anche i vicoli della città vecchia, le aree diroccate, le case di ringhiera con i panni stesi, i bidoni allineati nei cortili; i navigli, Brera, Porta Venezia, ma anche quartieri come Greco, Garibaldi, Bovisa, le stazioni, i parchi cittadini… Eppure ci rendiamo presto conto che solo per equivoco o per superficialità Marco Crippa è stato a volte definito un pittore di architetture, mentre si tratta piuttosto di un pittore dell’attimo, o meglio, di attimi di vita. La sua opera è la celebrazione di una città vitale, immediata, mai aneddotica, imbevuta di una luce tanto più grande e poetica quanto più fragile e vulnerabile, la luce dell’attimo davanti all’eternità. Allo spettatore non resta che lasciarsi accogliere, abbracciare, inebriare da questa città cesellata, incrostata, spetalata, esaltata, questa città dai cieli atlantici che ha smesso di essere Milano (città di mode, nebbie, corse e finanze), che sa di porto, di fiaba, di castelli in aria, di giorni e di notti senza pensiero; la scopre, sorride e si meraviglia. 

Marco Crippa crede nell’esperienza, nella volontà e nella coerenza; non rovescia tradizioni, non crea una pittura nuova, non teorizza; dipingendo egli sceglie di essere semplicemente se stesso. La sua pittura è decisa, palpitante, generosa e sempre sincera, dunque originale e contemporanea in quanto costituisce, regolata da leggi proprie, un universo a se stante e sempre accessibile. Marco Crippa è un artista di grande immediatezza, di impulsi, e le su ispirazione si riversa unicamente sulla resa, sulla materia pittorica; ne consegue una espressione che non necessita di filtri intellettuali, di istruzioni, che non fa sfoggio di cultura, di citazioni. Il suo segno rapido, essenziale, vitale, chiama l’occhio dello spettatore semplicemente a testimoniare la naturalità del suo processo pittorico. Eppure Marco Crippa non è affatto un uomo facile. Ci sono artisti che sono altrove solo quando creano e ce ne sono altri che restano sempre in un mondo inaccessibile: Marco Crippa appartiene a quella cerchia di artisti per i quali vedere meno significa vedere meglio, artisti che non possono essere trasportati dal mondo dei colori a quello delle parole senza subire un trauma, senza perdersi. Marco Crippa non ama parlare delle proprie opere; sa che l’arte si esprime in forma di domanda e in quest’ambito si muove senza azzardare risposte. Egli dice solo “questa è la mia pittura”, indicando qualche quadro nelle vicinanze. Quando lavora egli sente di affidarsi a una pulsione che lo porta ogni volta a creare un’opera come se questa fosse sempre l’unica, l’irripetibile, la prima e l’ultima. L’artista non si pone davanti alla veduta, egli è piuttosto dentro l’opera, ne è avvolto, completamente immerso. Il suo gesto è sempre presente, visibile, magistrale. E allo stesso tempo lo spettatore ne viene attratto, coinvolto, ne diviene protagonista. Quando osserviamo con attenzione alcune sue opere abbiamo presto la sensazione di trovarci nel mezzo di un viale trafficato, in una situazione quasi precaria, di pericolo, come se l’artista si fosse posto di fronte ad alcune auto che stanno sopraggiungendo nella sua direzione e si fosse scansato poco prima di esserne investito. Spesso predilige punti di vista ad altezza uomo, quasi il suo desiderio fosse che lo spettatore si incammini dentro l’opera, che vada a passeggiare tra le innumerevoli comparse, elegantemente affusolate e senza volte che affollano le sue vedute. Sono opere che non hanno punti fermi, realizzate con spatolate di colore di inesauribili vibrazioni vitali; opere dove l’occhio dello spettatore non riposa mai poiché costantemente sollecitato a decifrare, ad impadronirsi, a perdersi in quella freschezza di improvvisazione (fatta di ritmo compositivo ed evaporazione delle forme, di scavi e risalti) in quel non finito impressionista scaturito dalla padronanza totale di una tecnica impensabile. Il metodo può sembrare semplice, ma sicuramente è rigoroso: ogni opera è realizzata interamente dal vero, sulla strada, a contatto con il pubblico. Per l’esecuzione dell’opera l’artista utilizza esclusivamente spatole e colori e olio che orchestra sulla tela senza i preliminari del disegno. Le opere sospese a causa di maltempo vengono abbandonate. L’emozione e la luce del momento non possono essere ricreate l’indomani, così come non possono essere imbrigliate in un disegno preparatorio. Nascono così opere vigorose e mature, realizzate con tecnica soave, sorprendente, virtuosa e agilissima, che crea e dispone masse, vortici, nodi, grumi di colore, e allo stesso tempo scava, incide, restando sempre limpida, fino a raggiungere la leggerezza e la fragilità di una pittura trasparente, aerea fino all’assenza, all’annullamento del colore. Eppure basta osservare attentamente quei grumi, le incisioni, gli spessori del colore, incontrare la strabiliante tavolozza di questo artista dell’aria e della luce, per percepire che nel suo gesto, in un’epoca di confusioni artistiche, resistono il valore e l’attualità del dipingere.